mostre ed eventi

MOSTRA DI ARTE CONTEMPORANEA

DONNA

SALA AGORA' LEONARDO SCIASCIA

GIBELLINA

Comunicato stampa    Matera 2919

"Tra sogno e realtà: la mia Città. Gibellina   Matera 7/14 luglio 2019

La “Memoria resuscitata” nelle opere pittoriche di Piera Ingargiola

 testo in catalogo Tanino Bonifacio

 

Con la pittura di Piera Ingargiola si aprono le pagine di un grande romanzo dedicato alla Sicilia, pagine intrise di poesia e d’infinita creatività che narrano soprattutto di una città che ha fondato la sua prospettiva di vita sulla cultura e l’Arte: Gibellina.

Nella pittura di Ingargiola germinano per incanto le sostanze e gli umori della sua terra avvolta dalla luce meridiana, la memoria perduta” della sua  Gibellina distrutta dal terremoto del  1968,  martirizzata dalla natura e trafitta dall’indolenza dell’uomo. Nella vita tutto scorre, tutto passa e scompare inesorabilmente sotto gli occhi di uomini  precari, solo l’arte  ha il dono miracoloso di fermare il tempo e il declino delle cose, solo l’arte recupera la memoria della vita perduta.

 L’arte è lo strumento che raccoglie e conserva i segni del viaggiare  malfermo dell’uomo  e quella di Piera Ingargiola è un’arte che raccoglie, conserva e narra la storia di Gibellina, la città  di ieri scomparsa nell’oblio e quella di oggi creata dalle mani sapienti di uomini che hanno donato Bellezza e Speranza.

La pittura di Piera Ingargiola  è “Memoria resuscitata”  di luoghi scomparsi, riproposizione di cieli che hanno avvolto un’umanità dolente e lei, pittrice delicata  e sapiente, con la sua arte lenisce il dolore della perdita e ricuce le ferite della Memoria rivitalizzando la vita scomparsa, le case crollate, le strade perdute, i sussurri di uomini muti. Lei, attraverso la pittura,  ripropone il racconto della vecchia Gibellina e dipingendo i segni delle architetture ridà  voce e  fiato vitale alle  storie consumate fra vicoli e cortili intrisi di umanità antica. Ogni gesto creativo e ogni frammento pittorico di Ingargiola descrive la vita  di uomini che consumano la loro vita  come matita fine e debole su questa terra di Sicilia fatta di roccia dura, di sale e di sole, di luce e anche di lutto.  Pittura che narra e si nutre della natura  della Sicilia e della bellezza di Gibellina Nuova, tanto da contenere in essa stessa l’aria, il sole, le stelle, gli orizzonti e anche le lucide utopie di uomini transitati per gli spazi surreali di una Gibellina sognata e immaginata.  

 Piera Ingargiola è la pittrice che pratica l’elogio della Bellezza, Bellezza che lei identifica con la  Gibellina di oggi, città quale museo d’avanguardia,  “Museo en plein air” che dona ai visitatori la poeticità  della scultura, della pittura e dell’architettura contemporanea, un luogo da vivere ed ammirare,una città che suscita vita,sorpresa e speranza, così come immaginata nel pensiero visionario di Ludovico Corrao:“Dove si distruggeva la storia solo l’arte poteva ricostruire le stratificazioni della memoria dispersa, solo un progetto culturale forte e di sfida della morte poteva rendere fertile il terreno per nuovi frutti e nuovi fiori”.

 

                                                                                         Tanino Bonifacio

 

 

Inspire  mostra d'arte contemporanea  Matera 2018

INSPIRE

Di Marilena Calcara

 

Il respiro scandisce il ritmo della vita, "respirare sulla” vita è quello che fa l’arte ed è questa la sfumatura che gli antichi romani davano al termine“inspiràre”, INSPIRE appunto. Il tema alla base della seguente mostra si rivela quindi come il perno più magico a fondamento del processo di creazione artistica, ovvero il modo in cui l’artista, respirando sulla vita e su sé stesso, produce l’opera d’arte. Il perché ed il modo in cui l’artista inizia la sua parabola creativa, tema attualissimo del dibattito sull’arte contemporanea, è l’aspetto più affascinante e travolgente che caratterizza l’opera d’arte. Ciò accade perché al ‘respiro’ sulle cose, l’arte contemporanea aggiunge la libertà espressiva delle forme e dei mezzi artistici, una libertà che complica tutto, comporta scelte e produce molteplici risultati.Emerge in un ritratto nascosto dalla decorazione liberty di un ramo fiorito nell’opera di Piera Ingargiola 

Siamo alla frutta

"Se questo ha un senso"
"Se questo ha un senso"

Sassittassi sedia d'artista Palermo  2017

Sedia Reale.

Otium mostra d'arte contemporanea Matera  2016

"Assorta"

Condensare, rimemorare

 

 

di   Aldo Gerbino

 

 

La dimensione contemplativa che si attua nell’esercizio della parola, come nella condensazione oggettiva operata in pittura, in scultura e in tutte le forme postmoderne applicabili alle arti figurative, svolge parimenti il proprio dominio sia sul versante del silenzio sia su quello della sonorità prodotta dall’azione, dalla fabrilità operativa. Un silenzio, comunque, che è sempre germoglio di un flettersi interiore, in quel sospingere alla necessità d’un momentaneo arresto. Un otium ‘attivo’ come innata volontà di superare le barriere spesso coercitive, asfittiche, imposte dalle molteplici e contraddittorie formule del tempo presente e che, inequivocabilmente, incidono, trasformano i termini di quella visione consapevole del mondo e delle sue cose, dell’uomo, dei suoi problemi, delle tangenze operative sulle riflessioni che il procedere artistico, l’azione o l’esigenza creativa impongono. Opera di sedimentazione, di raccoglimento, la ‘pausa’ s’installa sul condotto sperimentale in un dinamizzare la sensibilità, nel veicolare sensazioni e aspetti anche enormemente distanti tra loro per tentarne un possibile collegamento, per cercare di comprendere, con una maggiore consistenza loica, la dimensione in cui realizzare le proprie intime pulsioni e dar loro un volto, una giustificazione esistenziale. Certo, la velocità risveglia alcune tensioni tenute nascoste nella coltre dell’inconscio; d’altronde è la stessa velocità a intorpidirle, a favorire un’anestesia con quell’aggredire il continuum del divenire, intervenendo sullo stesso linguaggio da usare e che, a volte, sembra poco confacente con la realtà dei fatti. Di quale linguaggio far uso (in senso letterario, in senso figurativo nell’attinenza con le arti)? D'altronde possiamo non accogliere il respiro di un lexicon tramandatoci dalla nostra linfa storico-sociale, ospitando acriticamente le spesso gratuite aggressioni iconoclaste? Quale linguaggio può, per altro, non essere che compatibile con la propria struttura psichica? con l’alveo della propria cultura?

Non sappiamo se sia stato ampiamente decrittato l’assunto di ReinhartKoselleck per cui il vasto collage linguistico già codificato, – quell’ampio reticolo che noi preferiamo intendere quale vivo monumento biologico e intelletualeepifenomeno della secrezione d’idee e quindi di fatti, e di materiali artistici, non sia, per il filosofo tedesco, sufficiente a consegnare definizione identitaria nel tempo delle civiltà (e nella crescita in esso).

 

 Se ciò in parte corrisponde al vero, soprattutto nei linguaggi istituzionali, è altrettanto vero che riconsegnare smalto alle parole dormienti, o impropriamente usurate dalla globalizzazione linguistica, sembra essere opportuna necessità di rivitalizzare, rimemorare e consegnare al proprio tempo le istanze germinative di un passato in cui inevitabilmente si radica e si nutre il nostro presente così come le avances sul nostro umano futuro.

A tali istanze di benjaminiana rimemorazione si può porre qualunque atto riflessivo; in virtù di questo le accostiamo all’attuale pluralità estetica di tale mosaico contemporaneo composto dalle 19 tessere di 20 artisti. Partendo da propaggini della nuova figurazione o da tensioni informali fino a giungere a narrazioni onirico-simboliche si stratificano qui i segni di Giovanni Stella con il suo atto contemplativo (l’acrilico in omaggio a Böcklin) sulle memorie geologiche e quindi sulle consistenze più intime della terrestrità accompagnate da una vocazione metafisica, oppure la coagulazione, nel suo calco informale, vissuta tra le spire del ‘sogno e della realtà’, di Anna Maria Li Gotti per avviarci all’affabulatrice traccia paesaggistica di Naire Feo ricondotta nelle istanze del topos arcadico fino a quel rilascio energetico che Nicola Lisanti consegna, nel suo olio, con le marcature del nero pronte a restituire forza espressionistica al suo dettato sentimentale. E dalle raccolte figurali di Dora Flavianna col suo racconto tatuato, alla visione tonale della ‘Sdraio’di Nancy Sofia e al “Senza segnale” di Angela Sarzana si approda al pop di Anna Maria Lo Bello con i “Venditori di mele” fino a toccare gli umori decorativi di Desislava Gambino o l’agile acquerello di gusto fotografico di Arturo Barbante e le antropologiche applicazioni di Evelin Costa nel suo “Assorto”, lambendo le tecniche miste di Dimitri Gazzierio (“L’uomo www”) e Laura Riccobono. In tal modo, a ridosso della digital art, si esprimono Piera Ingargiola nel bel volto di un’Assorta fissa nel proprio tempo di riflessione per poi, dalla sua impronta pubblicitaria, Aldo Palazzo vi rafforza il senso dell’evasione, mentre Maria Lo Duca,in “Contemplatio naturae”, fa gemere astratte suggestioni e, al contempo, le dissolvenze di Francesco Pezzuco si consegnano alla tenace volontà del racconto intimo vissuto nella stratificazione di elementi connessi tra oggettività e soggettività. Infine il prodotto firmato TrapaniCalabretta elargisce, nei richiami brut, nell’antigrazioso, negli ammiccamenti da street-art, il motivo d’una lassità, il gap costituzionale del contemporaneo a ri-significare il prodotto pittorico, ciò quasi a condurci verso la chiusura del percorso con quel materiale ora convertito, compattato, nella forma d’una interiore eleganza espressiva: quella tecnica mista su fibra di cotone di Bartolomeo Conciauro: tessera musiva, tattile, commestibile, prossima al vero proprio per la sua   esposta frangibilità, e, non ultimo, per l’acquisito gusto d’una sobria armonia.

              

 

Cartolina per la libertà   2017

Cartolina per la libertà!! 2017

Donna in colore   personale 2015

Donna in-Colore
Nella società odierna,in cui si tende a “clonare” quasi tutto,il rischio a cui andiamo incontro è di ritrovarci amorfi.
Pensiamo all’abuso che i media fanno dei nostri cervelli,cercando di conformarli a loro “uso e consumo” per finalità che ci sono ben chiare.
Sono sempre gli stessi media che parlando del femminicidio, lo identificano associandolo al colore rosso, come se si potesse stabilire da una sola tinta l’identità di una donna.
Quasi le si volesse apporre un “marchio” identificativo ed inequivocabile, incastonandola e rendendo di un'unica tinta la sua personalità.
Il rosso simboleggia infinite sfaccettature nella donna; come l’evoluzione femminile: da figlia diviene donna,compagna e madre, questa mutazione è tinta di rosso,lo stesso rosso da cui inizia una nuova vita.
Il trucco che mette in luce la sua bellezza può esser rosso,come le unghie delle sue mani,quelle mani che accarezzano,cullano,crescono,curano,creano e lavorano.
Così come le sue scarpe, ma non per simboleggiare gli ultimi passi fatti,ma per risaltare quella parte seduttiva ,che se vuole,sa affascinare e conquistare il cuore dell’amato.
Rosso è anche il colore dell’indumento indossato a capodanno come portatore di buon auspicio.
Ed ecco allora,che identificare la donna ad un solo colore diviene troppo riduttivo e perfino inaccettabile.
E’ come se si volesse evidenziare solo ed unicamente la sua “ fragilità” in tema di femminicidio, fragilità non intesa come debolezza,ma come minor forza fisica rispetto a quella maschile,ed offuscarne tutte le altre caratteristiche rendendola monocromatica.
Certo, ben vengano le manifestazioni contro la violenza sulle donne,purché il rosso non venga assolutizzato ad un solo avvenimento : la fine di una vita.
La donna è in-colore,in quanto nessun unica tinta può identificarla nella sua totalità,perché ella è come il prisma di vetro,il quale se attraversato da un fascio di luce,si scompone in tante bande colorate.
A conclusione aggiungo che, fin dai tempi antichi la donna ha dovuto fare i conti con ruoli “prestabiliti” e con estrema fatica e tenacia, è riuscita a conquistarsi degli “spazi” e ruoli di spicco nella società,che l’ha sempre “esaltata” nelle opere d’arte,boicottandola nella vita.
Credo che bisognerebbe incominciare seriamente a dire basta alla “globalizzazione stereotipata” della femminilità, come target di mercato,che spesso, se non spessissimo, la “strumentalizza” non per esaltarne le qualità e la bellezza,come vorrebbero farci intendere,ma per fini poco nobili : il vantaggio economico.
Nicosia Angela

LA SEDIA DI MISTER POUF

 

 

 

“Insomma! Una sedia serve per sedersi e basta”,  sbottò mister Pouf.

 

Era rientrato a casa presto dal lavoro quel giorno. Per strada lo aveva colto la pioggia e ora i vestiti gli grondavano formando piccole pozze sul pavimento.

 

Come ogni giorno aveva aperto la porta, tolto il soprabito e si era diretto in camera da letto per disfarsi anche delle scarpe e del resto dei vestiti.

 

Era stata una giornata ricca di sorprese, quella e ancora non era finita.

 

Finalmente asciutto, si recò in soggiorno, ma passando per l’ingresso notò qualcosa di strano a cui prima non aveva prestato attenzione. Un oggetto, dal vago aspetto familiare, sembrava stare quasi in un equilibrio precario, infertogli senza dubbio da un artigiano sadico. Osservò l’oggetto con attenzione; sembrava una sedia, ma al contempo … no.

 

“Evelyn!”, gridò alla moglie. “Cos’è questa roba?”

 

Misses Pouf era una donna elegante e dai modi affabili e gentili.

 

“Ma caro, non vedi? È una sedia.” Gli rispose.

 

Lui rimase un po’ interdetto. Una sedia, serviva per sedersi, per questo si chiamava sedia e quell’oggetto non sembrava poter assolvere a detto compito.

 

Ci girò un po’ intorno. Forse è solo l’aspetto e magari sarà comoda, pensò ingenuamente. E per non voler contraddire la moglie, che lo guardava in modo tanto entusiasta, provò a sedersi.

 

“Fermo!” esclamò la moglie, “Che fai? Non vorrai sederti, spero?”

 

Un’espressione dubbiosa attraversò il suo volto. “Ma non hai detto che è una sedia?” tentò di controbattere.

 

“Ma come pensi di poterti sedere lì?”

 

“È una sedia, o no?”

 

“Lo è e non lo è.” Cercò di spiegare la moglie. “È un’opera d’arte. Me l’hanno portata oggi. Ti piace?”

 

“E a che serve?” il signor Pouf si interessava di numeri e di cose pratiche e l’arte non faceva assolutamente parte del suo mondo.

 

“A nulla”

 

“Come a nulla?”

 

“Beh non proprio a nulla. Stimola delle riflessioni e fa bene allo spirito. Ma non vedi che esprime la precarietà della vita? Che in quest’opera ogni canone ed ogni convenzione vengono stravolti? Non ti rendi conto del gioco sottile dell’allusione e dell’inganno? Di come l’autore abbia voluto rendere omaggio al mondo che ci circonda perennemente zittito dal clangore della vita quotidiana?”

 

Mister Pouf tornò a guardare l’oggetto e per quanto si sforzasse, lui tutto quello che vedeva sua moglie proprio non lo vedeva.

 

“E quanto ci è costata quest’opera d’arte?”

 

“Stai sempre a pensare al denaro e ai conti da far quadrare, tu. Cerca di essere, ogni tanto, più aperto alle novità e alla bellezza, invece di stare sempre lì a pensare ai soldi.”

 

“E no che ai soldi ci penso e siccome questa sedia mi sarà costata, e pure tanto, conoscendoti, pretendo di potermici sedere o quanto meno di poterci poggiare qualcosa!”

 

“Ti ho già spiegato che non puoi. Caro, perché non vuoi capire?”

 

“Insomma! Una sedia serve per sedersi e basta, altrimenti chiamatela pure in un altro modo”.

 

Mister Pouf scrollò le spalle, lanciò un’ultima occhiataccia all’oggetto e alla moglie, poi si diresse in salotto dove l’attendeva la sua vecchia e comoda poltrona. Si sedette, accarezzò il velluto che la ricopriva e si lasciò accogliere amorevolmente tra le sue soffici braccia.

 

“Sedia… mah!” ripetè.

 

 

“Sedia… mah!” , continua a ripetere mister Pouf e in parte ha ragione, perché sulla Sedia D’Artista non sempre ci si può sedere.

 

In “Sassittassi” infatti, la sedia non è soltanto un oggetto di design. Niente a che fare con le “Chaise” di Le Corbusier, Mies Van De Rhoe, o prima ancora, di Charles Rennie Mackintosh,Giacomo Balla, Fortunato Deperoo, Marcel Breuer(solo per citarne alcuni) che avevano una precisa funzione pratica. Nel caso di questa mostra, invece, la  sedia, svincolata a volte da una vera e propria funzionalità, si libera caricandosi di ben altri bisogni che privilegiano l’aspetto spirituale e artistico.

 

La sedia d’artista moderna prende spunto dal movimento anti-design che si sviluppò negli anni Ottanta, quando all’idea di funzionalismo si contrappose una concezione più libera e antifunzionalista dell’oggetto in cui prevalgono principalmente l’aspetto ludico e contenutistico (tra i principali esponenti di questa nuova concezione del design abbiamo, per esempio, Alessandro Mendini). Sono quelli gli anni in cui design, arte contemporanea e artigianato si fondono dando vita ad oggetti che travalicano la loro funzione primaria per aprirsi a nuove strade e nuove interpretazioni.  La sedia concepita come vera e propria opera d’arte, se si escludono le opere di alcuni artisti concettuali come Joseph Kossut, ha una nascita più recente. Tra gli artisti che realizzarono numerose “Sedie d’artista” non posso non ricordare Giusto Sucato (recentemente scomparso).

 

Le sedie elaborate ed esposte in questa mostra, prendono così spunto da due aspetti fondamentali: Il primo è quello legato al funzionalismo e all’idea futurista e del Bauhaus dell’arte nella vita di tutti i giorni (mobili ed oggetti compresi); il secondo, invece,  punta all’aspetto più “astratto” dell’oggetto azzerandone la funzione principale e concentrandosi su tematiche più concettuali e eteree.

 

Negli ultimi decenni la sedia si è resa protagonista di numerose esposizioni di arte contemporanea. Ma perché lei e non qualche altro oggetto? Forse perché in essa sono concentrate diverse tematiche e necessità che la rendono una compagna ed un’ancora di salvezza nel mare agitato della frenetica vita quotidiana. La sedia come pausa, oggetto caro e rinfrancante del nostro corpo stanco, come amica di sempre pronta ad accoglierci ed accogliere i nuovi ospiti che nella nostra esistenza si avvicendano, punto fermo e sicuro della nostra anima spossata. In “Sassittassi” essa diviene ora albero ora oggetto respingente, ora cavalcatura ora lacerazione interiore. Simbolo di precarietà o di gioco, essa si presta a più reinterpretazioni disvelando le sue mille facce in un continuo alternarsi di equivoci ed inganni o solide certezze. La sedia, quindi, come simbolo di una società eclettica in cui nulla è ciò che sembra: labile specchio d’acqua saponata pronto ad infrangersi al minimo tocco o resistente nuvola disposta ad accoglierci e sorreggerci.

 

Arturo Barbante, Tiziana Cafiero, Peppe Caiozzo, Bartolomeo Conciauro, Evelin Costa, Lia D’Aleo, Angelo Denaro, Cinzia Farina, Giuseppe Fell, Naire Feo, Dimitri Gazziero, Piera Ingargiola, Marco Lotà, Pino Manzella, Maria Laura Riccobono, Angela Sarzana, Nancy Sofia, Caterina Vicari, Istituto d’arte di Palermo, sono gli artisti che hanno offerto la loro visione di un oggetto che ci accompagna sin da piccoli e di cui mai ci priveremo.

 

 

 

Isola delle Femmine 21/11/2016                                               Vinny Scorsone

 

 

 

DONNA IN COLORE di Piera Ingargiola

progetto allestimento Arch. Calabretta Giovanna

testi e presentazione TrapaniCalabretta

IL TEMA

Quale colore rappresenta la donna nell'immaginario collettivo?

Da tempo l'autrice riflette sul colore rosso, colore femminile per eccellenza perché rimanda alla“sessualità” femminile - dai cicli, alla verginità perduta, al rossetto usato per abbellirsi - ma che da qualche anno viene adoperato dalla collettività come colore della violenza sulle donne e come simbolo del “femminicidio”. Le famigerate scarpe rosse posizionate in gran numero in piazze e luoghi espositivi, hanno fatto si che il colore di per sé innocente e incolpevole, costituisse il leitmotiv di una femminilità da calzare per fare soltanto pochi passi: gli ultimi.

Nei lavori in questa personale il rosso non predomina. Solo alcune opere chiave lo espongono,come “le gambe” che camminano sicure su scarpe rosse dal tacco acuminato, sopra il Cretto di Burri che contiene i ruderi di Gibellina vecchia, mentre dentro fanno muovere la stella di Consagra simbolo della nuova Gibellina. Come a dire che quel rosso è sempre il punto di partenza di qualcos'altro, è un testimone da passare; che l'essere femmina non è la debolezza della vittima ma la rivoluzione vitale della società.

Le figure femminili che si intravedono contengono e rilasciano una vasta gamma di colori, per nulla monocromatiche come li vede e li vorrebbe qualcuno. In quasi tutti è chiara la ricerca di un'armonia che scaturisce dalla sovrapposizione di immagini personali che a volte producono scaglie di colore acuminate come coltelli, e a volte si compenetrano “fondendosi” irrimediabilmente. Quasi tutte le opere sono realizzate mediante la tecnica “plotter painting”, opere digitali “dipinte” layer su layer con un pennello che la tecnologia ha modellato a forma di mouse. Non è da escludere che l'artista decida in occasione del vernissage di agire pittoricamente sulle opere già esposte, come a voler tagliare il cordone ombelicale con un gesto simbolico e reale.

Il tema della violenza in questi quindici lavori è volutamente velato, esorcizzato. È una traccia nascosta, un messaggio sottovoce, un mostro da lasciare in letargo nel “layer spento”del software.

 

ITER PROGETTUALE

Piera si trovava a Gibellina durante il terremoto, anche se molto piccola. È chiaro non con servi ricordi dell'evento sismico di per se; ciò con cui crescendo ha fatto i conti sono stati gli effetti del terremoto: quelli che hanno segnato e determinato un luogo, un territorio, una generazione. La sua figura o traccia di donna, viene sovrapposta e frammentata al paesaggio. La natura e il fuori, con violenza cromatica, si fonde con la figura umana. La ingloba, come una gettata di cemento colorato.

Appare chiaro che il processo urbanistico e artistico che ha interessato la valle del Belice negli anni70/80 abbia contribuito a determinare il particolare punto di vista di una bambina, figlia di quei luoghi, sopravvissuta all'azzeramento operato dalla natura che ingenuamente assorbiva curiosa un genius loci ibrido, figlio di una cultura tradizionale contadina e di un fermento progettuale d'ambito peninsulare. Nei suoi ricordi d'infanzia e d'adolescenza Piera “collabora giocando” in quell'aria di ri-creazione continua, dove ciò che sembrava ludico ai suoi occhi era il modo più semplice trovato dall'uomo per rifondare un luogo partendo dai monumenti. I monumenti che fanno da monito/memento a chi è scampato alla furia della natura per ricordare che i confini di un luogo sconfinano, che occorre pensarsi cittadini del mondo.

Da questo bisogno occorre partire per leggere la ricerca di Piera che non inizia dalla cosiddetta

“materia”, non più per lo meno. Piera parte dall'immateriale, è questo che lei mette sulla sua tavolozza. Il la è dato da ciò che i suoi occhi hanno catturato-fotografato- in termini di ricordi.

Un paesaggio da un dato punto di vista, una immagine catturata da un rotocalco, un fiore colto in un particolare momento di luce e ombre: questi elementi sono gli “scatti” che l'autrice compone e con/fonde per raccontare di se. È chiaro quindi che sono quasi tutti autoritratti, risultato di come l'individuo sia il risultato in termini di sommatoria di parti.

Lei unisce senza soluzione di continuità ciò che i suoi occhi colgono, proprio come farebbe un paesaggista davanti ad un tramonto, ma il suo tramonto, il suo paesaggio non è davanti a lei ma dentro, layer su layer. Nessuno di questi lucidi sovrapposti ha più diritto dell'altro di esistere e nel loro coesistere raccontano del vissuto dell'artista, strato su strato.

Dobbiamo sempre ricordare che la casa dove ha avuto il primo vagito è stata prima seppellita dal terremoto e poi tumulata dal Cretto da Burri. Non risulta pertanto strano se il senso della sovrapposizione, della sovrascrittura, del caos non come teoria da provare ma come sintesi evolutiva dell'esistenza sia la poetica di un'autrice di opere del 2015, che ha rimodellato il pennello a forma di mouse, e ha sostituito a pigmenti e olio di lino sequenze di 0 e 1 in bit.

E in virtù dell'essere fruitori suoi contemporanei proprio lo strumento virtuale non deve sembrarci così alieno se da 10 anni ad oggi tutti i nostri ricordi in termini di passato sono conservati gelosamente dentro memorie virtuali e hard disc.


Petali di tulipani... mostra di arte contemporanea in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne
Petali di tulipani... mostra di arte contemporanea in occasione della giornata internazionale contro la violenza sulle donne